domenica 2 giugno 2013

l'identità degli altri


Percing, tatuaggi treccioni rasta e crani rasati. Si scolpiscono sul corpo i segni di appartenenza a una tribù virtuale.
Ci si vuol fare identificare, il che implica l'attesa di un riconoscimento.
Sintomi di una difficoltà, nella società individualista di liberi e uguali, di accettare la propria condizione di individuo come un'opportunità, vivendola, invece, come un'impotente solitudine.
In effetti, nel quotidiano confronto sociale, l'individuo sperimenta nei suoi rapporti con la società del gas, col padrone di casa, con la banca, con l'ufficiale giudiziario, la debolezza della propria posizione contrattuale, che lo vede eternamente soccombente, vaso di coccio tra vasi di ferro.
Benché esplicitamente proibito dai codici civili, il patto leonino che di fatto regola i contratti tra attori forti (economia, finanza, stato) e attori deboli (consumatori, utenti, cittadini) ribadisce ogni giorno l'assoluta risibilità degli slogan trionfali che hanno accompagnato, or son vent'anni, il trapasso ai nuovi assetti sociali. C'è sempre qualcuno, più libero e più uguale di noi, che, come si diceva una volta, tiene il coltello per il manico.
Benché sembri del tutto evidente, a lume di naso, che il confronto diseguale trovi le ragioni della propria iniquità nell'insopprimibile gap tra chi ha e chi non ha, il senso comune, sapientemente dirottato da un apparato intellettuale che funge ormai da agenzia pubblicitaria del capitalismo, ha difficoltà ad individuare questa semplice ragione e si smarrisce nel labirinto di complesse e acrobatiche interpretazioni d'ordine culturale. Come in The Purloined Letter di Poe, la verità è davanti agli occhi, ma non la si vede.
Eppure è evidente che si dovrebbe cercare di dare una spiegazione strutturale a fenomeni, ora permanenti, che fino a qualche tempo fa avevano il carattere transitorio dei riti di passaggio.
Le sottoculture giovanili del passato segnavano il limbo tra l'identità famigliare dell'infanzia e una nuova identità sociale non ancora definita, erano riservate a studenti e giovani disoccupati, cioè a chi non era ancora entrato nel circuito produttivo. Di regola, cessavano con l'accesso all'officina, all'impiego, alla professione. L'appartenenza non cessava invece con il  matrimonio, se questo non determinava anche una metamorfosi del proprio essere sociale. Sembra dunque evidente la categoria strutturante della scelta culturale.


L'analisi del più innocuo di questi fenomeni, la goliardia, ne mostra sia il carattere carnevalesco, dunque di frattura ciclica del tempo lineare, sia la connotazione sociale, esplicita nella tolleranza accordata alle trasgressioni della futura classe dirigente.
E' proprio quest'ultimo aspetto, cioè la mancata metamorfosi in un diverso essere sociale, che determina, laddove non ci sono prospettive, il farsi da transitorie in permanenti delle versioni più inquietanti delle sottoculture giovanili.


C'è, quindi una causa sociale che dilata nel tempo il fenomeno identitario e antagonista delle gangs, così come sono sociali gli eventi (globalizzazione, crisi economica) che lo hanno dilatato nello spazio, estendendolo dai ghetti originari, a tutte le periferie urbane del mondo. La cultura, se c'è, viene dopo.
Nella guerra dichiarata alle regole di convivenza si cristallizza l'antagonismo di chi si sente, e tutto sommato a buona ragione, fuori dai percorsi di inclusione e promozione sociale, ma le ragioni di tale esclusione vengono poi cercate sulla base di un'identificazione il più delle volte etnica.
Questa è una scelta che può  far comodo a chi detiene il potere, perché sposta, per l'appunto, su una soggettiva base culturale, un' oggettiva contraddizione sociale, e  ne favorisce una lettura naturalizzata, funzionale a una polarizzazione tra etnocentrismi di segno opposto.
Il carattere regressivo di queste identificazioni appare chiaro nelle recenti riprese di conflitti di religione. Là dove accadono - come fu per lo storico divorzio tra India e Pakistan - sarebbero le religioni a determinare le differenze. Qui è evidente il passo indietro rispetto all'esperienza dei neri d'America, che cambiarono religione, facendosi musulmani, perché già diversi.




La conversione in massa all'Islam dei Black Muslims è un ottimo esempio di quanto la nostra percezione della diversità sia generalmente un'illusione ottica. A confermare la nostra idea di naturalità del binomio musulmano/nero, fu una scelta adulta, e non una presunta imposizione alla nascita.
Per quanto la scelta dell'Islam fosse suffragata dalla visione panafricanista del tempo, che non dava spazio alle religioni tradizionali dell'Africa Nera, pure ebbe dei margini di arbitrarietà, si sarebbe potuta scegliere, con altrettante ragioni, anche un'altra confessione.
Perché, come è evidente, identità e identificazioni possono avvenire su un piano del tutto arbitrario.
Ne fa fede il tifo calcistico, dove la passione per una squadra è solo in minima parte determinato dalla cittadinanza, ma per lo più veicolato da una serie di altre ragioni, non sempre tutte razionali.
Il rito domenicale, e lo conferma un lungo periodo di complice tolleranza per le intemperanze dei tifosi, può essere sembrato una buona occasione per riportare, sia pure a intervalli più ravvicinati, a un ritmo ciclico, il bisogno di sovversione delle masse e  di quelle giovanili in particolare.
Centrato sul culto totemico per i colori di una maglia, il tifo ha l'impagabile caratteristica di prescindere da connotazioni sociali e consente quindi di scaricare in modalità interclassista, cioè all'interno del sistema dei dominati, le quote in eccesso di aggressività repressa.
L'utilizzo del tifo come valvola di sfogo per torcere a livello orizzontale un conflitto che è, invece verticale, non ha funzionato per due ragioni.
Seppure disegnata sulla falsariga del carnevale, cioè su una interruzione del tempo lineare e il rovesciamento del proprio statuto sociale, la domenica allo stadio resta interfacciata con il tempo storico e ne riflette le tensioni, l'esasperazione della lotta quotidiana per l'esistenza ha determinato surplus sempre più consistenti di violenza che hanno moltiplicato il numero e la gravità degli incidenti.
In secondo luogo capita che quando due squadre della stessa città militano entrambe in serie A, la scelta di appartenenza si effettua, molto spesso, anche su base sociale, riproponendo proprio quel conflitto che si voleva eliminare.


L'asse verticale che si proietta dal vertice alla base di una piramide sociale sempre più semplificata, è percepito dai singoli attori come variamente inclinato, ma arriva talvolta il momento della verità.
Per i lavoratori in cassa integrazione e senza speranza di una ripresa produttiva dell'azienda, l'asse è perfettamente ortogonale. Tra loro e il padrone è questione di vita o di morte. Ma è una consapevolezza arrivata, sovente, troppo tardi.
Ostentano caparbiamente tute e caschi, disperatamente aggrappati  ai simboli di un'ontologia sociale che sta per dissolversi.
Per molti sono le ultime ore di un'identità operaia, dopo la quale non ci sarà altro che nuda individualità.
Per chi passa dalla vita alla sopravvivenza, per chi, privato del reddito, si affida alle cure della Caritas e agli spiccioli degli enti assistenziali, la percezione dell'asse del dominio sociale torna ancora ad inclinarsi progressivamente fino a coincidere col piano orizzontale.
Il nudo individuo, non ha più una propria identità sociale, ma tende a identificare i vicini di casa.


E' solo identificandoli come loro che riuscirà, per opposizione, a trovare un noi in cui collocare quel suo io che conta così poco.
Poco importa che nella ritrovata identità collettiva si ritrovi omologato a chi lo ha licenziato, a chi non l'ha difeso, a chi lo ha sfrattato, a chi non gli ha fatto credito, italiano è l'unico noi con cui può sfuggire alla miseria del suo io.
Una legge imposta con criterio illuminista, forse neppure richiesta e desiderata dagli interessati, lo priverà presto di quell'unica, fittizia e simbolica categoria che lo tratteneva ancora sull'orlo del baratro dell'anonimato sociale, permettendogli una pur modesta differenziazione.
E' una legge che serve a poco, proprio perché eroga una qualifica esclusivamente simbolica. Se la cittadinanza non si sostanzierà di altri diritti, chi oggi la riceve, domani - come ci insegnano le gang di New York - può tornare a rivendicare con orgoglio violento le proprie radici.
Ma è una legge, sul piano di principio, sostanzialmente giusta, la cui necessità avrebbe dovuto crescere in altro modo: nell'iniziativa di base, politica e culturale, dei quartieri popolari, dove quell'italiano ridotto alla nuda vita avrebbe potuto ritrovare una propria dimensione collettiva con loro e non contro di loro.
Ma cosa ci dobbiamo fare? La nostra sinistra frequenta solo i cineforum, i propri salotti e qualche via del centro.
Nei quartieri popolari ci andrà Casa Pound, e speriamo nella resistenza dei parroci.